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capitolo xxv. 239

la signoria vostra in questo deserto? — Non tel dissi? rispose don Chisciotte: voglio imitare Amadigi, facendo quivi il disperato, il pazzo, il furioso; e così batterò anche le tracce del famoso Roldano allorchè trovò scolpito presso una fonte che Angelica, la bella, si era avvilita a farsi moglie di Medoro: che diventò pazzo di afflizione, svelse gli alberi, intorbidò le acque delle chiare fonti, ammazzò pastori, manomise mandre di armenti, incendiò capanne, rovinò case, strascinò cavalli, e fece mille altre bestialità degne di eterna fama e scrittura. E poichè io non intendo d’imitare Roldano, od Orlando, o Rotolando (chè portava tutti e tre questi nomi) a parte a parte in tutte le pazzie da esso fatte, dette o pensate, lo imiterò alla meglio in quelle che mi sembreranno più essenziali: e potrebbe anche darsi che io volessi contentarmi della sola imitazione di Amadigi, che senza estendere gli effetti della pazzia a danno di alcuno, col solo piangere ed angustiarsi acquistò tanta fama che nulla più. — Mi pare, disse Sancio, che que’ cavalieri fossero provocati, ed abbiano avuto un motivo di fare queste pazzie e queste penitenze; ma quale ragione ha mai la signoria vostra di volere diventar matto? quale signora l’ha fatto andare in collera? quale indizio ebb’ella mai per temere che la signora Dulcinea del Toboso lo abbia posposto a qualche moro o cristiano? — Qui sta il punto, rispose don Chisciotte, e qui sta l’acutezza del mio divisamento! Non v’è nè merito nè grazia in un cavaliere errante se impazzisce per qualche giusto motivo: il sublime si è impazzare senza un perchè al mondo, e far conoscere alla mia signora che io mi conduco a tal passo senza causa e senza motivo; e poi, non ne avrei io un’ampia causa nella mia lunga lontananza dalla sempre mia signora Dulcinea del Toboso? chè come già udisti da quei pastori di Ambrogio,