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Questa bizzarria, che battezzai monologo senza parole, nacque così: una sera, al teatro Valle, entrai nel camerino di Ermete Novelli, dicendogli con accento corrucciato:
— Sono trenta sere, che tu chiacchieri sulla scena quattro o cinque ore di seguito. Il pubblico non ne può più. Prendi questo manoscritto, studialo bene, e così finalmente reciterai senza aprire la bocca.
La sera seguente, Ermete Novelli eseguì il monologo muto con arte inarrivabile. La quale sopratutto, oltre al gioco della fisonomia, consiste nell’esattezza automatica dei gesti. L’attore non ha nulla, nè guanti, nè bastone, nè cappello, nè tavolino, nè posate, nè piatti, nè bottiglie, nè portafogli e via dicendo: eppure colla precisa indicazione del gesto deve dare agli spettatori l’illusione della reale presenza degli oggetti che finge di maneggiare.
Entra sul proscenio, con una mano in tasca, e l’altra come se reggesse un bastone.
Finge levarsi il cappello, e intanto, con gli occhi, cerca un attaccapanni libero, con