re, o volontariamente o ignorantemente, nei gradi di coloro che meritano più biasimo che laude. E potendo fare con perpetuo loro onore o una Repubblica o un Regno, si volgono alla tirannide, nè si avveggono per questo partito quanta fama, quanta gloria, quanto onore, sicurtà, quiete, con satisfazione d’animo, e’ fuggono, e in quanta infamia, vituperio, biasimo, pericolo e inquietudine incorrono. Ed è impossibile che quelli che in istato privato vivono in una Repubblica, o per fortuna o virtù ne diventano Principi, se leggessero l’Istorie, e delle memorie delle antiche cose facessero capitale, che non volessero quelli tali privati vivere nella lor patria piuttosto Scipioni che Cesari; e quelli che sono Principi, piuttosto Agesilai, Timoleoni e Dioni, che Nabidi, Falari e Dionisj; perchè vedrebbero questi essere sommamente vituperati, e quelli eccessivamente laudati. Vedrebbero ancora come Timoleone e gli altri non ebbero nella patria loro meno autorità che si avessero Dionisio e Falari; ma vedrebbero di lunga avervi avuto più sicurtà. Nè sia alcuno che s’inganni per la gloria di Cesare, sentendolo massime celebrare dagli scrittori: perchè questi che lo laudano, sono corrotti dalla fortuna sua, e spauriti dalla lunghezza dell’Imperio, il quale reggendosi sotto quel nome, non permetteva che gli scrittori parlassero liberamente di lui. Ma chi vuole conoscere quello che gli scrittori liberi ne direbbero, vegga quello che dicono di Catilina. E tanto è più