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dialogo 293

perciò che veggendo sè stesso non pur nell’animo, ma eziam nel corpo sì fieramente transformato, gli sarebbe gran rimedio a tale insania. Avvenga che da’ Poeti è narrato, che Pallade sonando la zampogna, fu da un Satiro ripresa, dicendo: Lascia la zampogna e prendi l’arme che a te s’appartengono, perciò che quella, deforme e laida ti mostra. Ed ella non attendendo al parlar suo, finalmente poscia sopra un fiume sonando, si vide sì brutta per lo gonfiar delle gote e della bocca, che gettò via la zampogna, nè mai più volle sonare. Quando il mare è perturbato da’ venti, e che egli getta la aliga alle rive, allora si dice ch’egli si netta e purga; ma quando l’animo si commove ad ira, come ch’egli mandi fuora sconce parole, amare e villane, non per ciò si purga, anzi più sè stesso macchia e riempie d’infamia, come che quelle, quasi per natura in sè, abbi preparato e se ne trovi sì ripieno, che riscaldato d’ira, fuori le getti. Il per che, come disse Platone, per una cosa frivola e leggiera, cioè per parole, sopportan pena grandissima quelli che hanno la lingua facile a dir male e ingiuriare altrui di parole, e sono di perversi costumi. Quando io veggo queste cose, e diligentemente l’osservo, allora soglio meco stesso considerare che quel medesimo che nella febbre è tenuto buon segno, sia migliore assai nel difetto dell’ira, cioè se l’iracundo abbia la lingua trattabile e netta. Se ne’ febbricitanti la lingua non appare con le sue qualità naturali, quello non è