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dove si vede tanta incostanzia e tanta variazione di vita, quanta mai non si trovasse in alcuna moltitudine.
Conchiudo adunque, contro alla commune opinione; la quale dice come i popoli, quando sono principi, sono varii, mutabili ed ingrati; affermando che in loro non sono altrimenti questi peccati che siano ne’ principi particulari. Ed accusando alcuno i popoli ed i principi insieme, potrebbe dire il vero; ma traendone i principi, s’inganna: perché un popolo che comandi e sia bene ordinato, sarà stabile, prudente e grato non altrimenti che un principe, o meglio che un principe, eziandio stimato savio: e dall’altra parte, un principe, sciolto dalle leggi, sarà ingrato, vario ed imprudente più che un popolo. E che la variazione del procedere loro nasce non dalla natura diversa, perché in tutti è a un modo, e, se vi è vantaggio di bene, è nel popolo; ma dallo avere più o meno rispetto alle leggi, dentro alle quali l’uno e l’altro vive. E chi considererà il popolo romano, lo vedrà essere stato per quattrocento anni inimico del nome regio, ed amatore della gloria e del bene commune della sua patria; vedrà tanti esempli usati da lui, che testimoniano l’una cosa e l’altra. E se alcuno mi allegasse la ingratitudine ch’egli usò contra a Scipione, rispondo quello che di sopra lungamente si discorse in questa materia, dove si mostrò i popoli essere meno ingrati de’ principi. Ma quanto alla prudenzia ed alla stabilità, dico, come un popolo è più prudente, più