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La moltitudine è più savia
e più costante che uno principe.
Nessuna cosa essere più vana e più incostante che la moltitudine, così Tito Livio nostro, come tutti gli altri istorici, affermano. Perché spesso occorre, nel narrare le azioni degli uomini, vedere la moltitudine avere condannato alcuno a morte, e quel medesimo dipoi pianto e sommamente desiderato: come si vede aver fatto il popolo romano, di Manlio Capitolino, il quale avendo condannato a morte, sommamente dipoi desiderava quello. E le parole dello autore sono queste: «Populum brevi, posteaquam ab eo periculum nullum erat, desiderium eius tenuit». Ed altrove, quando mostra gli accidenti che nacquono in Siracusa dopo la morte di Girolamo nipote di Ierone, dice: «Haec natura multitudinis est: aut humiliter servit, aut superbe dominatur». Io non so se io mi prenderò una provincia dura e piena di tanta difficultà, che mi convenga o abbandonarla con vergogna, o seguirla con carico; volendo difendere una cosa, la quale, come ho detto, da tutti gli scrittori è accusata. Ma, comunque si sia, io non giudico né giudicherò mai essere difetto difendere alcuna opinione con le ragioni, sanza volervi usare o l’autorità o la forza. Dico, adunque, come di quello difetto