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Uopo è dunque cacciarli; uopo è fare che il suolo sia netto e atto a servir di pianta al monumento che si disegna; e affinchè non ritornino e sturbino i lavoratori o demoliscano l’opera, è mestieri munirla di forte, di baluardo, di propugnacolo. Ora questo propugnacolo, questo palladio dell’autonomia e dell’unione italiana non può essere che il Regno dell’Alta Italia; il quale, appoggiandosi da un canto alla trincea delle Alpi, cinto dall’altro quasi con fossa e vallo naturale dalle riviere eridaniche e collegando insieme i due mari, segga per così dire a cavaliere e vegli a guardia della penisola.

La malagevolezza milita del pari contro l’autonomia anzi che contro l’instituzione del Regno settentrionale. Chi non vede infatti che il nodo difficile è quello di cacciare il Tedesco colla forza o d’indurlo colle pratiche ad abbandonare un paese posseduto per molti anni e ripigliato testè colle armi? Chi non vede che vinta questa ardua prova, gli altri ostacoli si appianeranno? Qual è la politica che insegni esser fattibile il più e impossibile il meno? Coloro che la professano somigliano a chi ci appunta perchè nel fatto dell’autonomia non vogliam cedere un palmo di territorio; come se sia plausibile che chi fosse costretto a cedere le intere province si ostinasse a difendere un palmo o ci riuscisse efficacemente. O si dirà che le potenze mediatrici veggono di mal occhio la fondazione di un regno forte in Italia? Ma se con tutta la loro mala voglia esse permettevano al re di Sardegna di crearlo colle armi; se dopo gli ultimi disastri la Francia si teneva obbligata dal proprio onore ad aiutarci per riconquistarlo (del che io posso essere buon testimonio); chi vorrà credere che oggi abbiano mutato parere in modo irrevocabile? Le loro disposizioni (io non dubito di affermarlo) dipendono in ultimo costrutto dalla risoluzione, dalla fermezza, dall’energia di coloro che ci governano. Gli esterni c’indurranno a patti indegni, ci daranno facilmente la legge, se noi siamo disposti a riceverla: cederanno per contro alla