Tu che, col giudicar, temperi il mondo,
Rendi a’ fellon di giusto merto ’l pondo. 2 Signor, infin a quando
Da la tua lenta pazienza umana
Gli empi cagion prendran di gioia insana,
Protervi, trionfando?
E i scellerati dispettose voci
E vanti alteri sgorgheran feroci? 3 Di tua gradita gente
Questi tiranni fan strazio crudele.
Di te, Signor l’eredità fedele
Per lor geme languente.
Vedove oppresse e forestieri uccisi,
E morti sono gli orfani e conquisi. 4 A bestemmiar son osi,
Che lo Dio di Iacob null’ode o vede,
E che nel cielo nighittoso siede.
O pazzi e furiosi,
Vie più ch’altra non fu vil turba mai:
Saggi, e fie tardi, divenite omai. 5 Quel che l’orecchia inserta
Have ne l’uom e l’occhio divisato,
Saravvi sordo, cieco ed insensato?
Quel che con norma certa
Le genti affrena, e a l’uom infonde il senno,
Non fie che vi castighi ad un sol cenno? 6 Il Signor ha contezza
Di quanto l’uom nel cor volge sagace,
Ch’altro non è che vanità fallace.
Beata l’alma avvezza
A tua santa paterna disciplina,
Cui di tua legge insegni la dottrina. 7 Perchè ’n queto riposo
La stagion varchi travagliosa e dura:
Mentre è cavata in giù la tomba scura,
A l’empio prosperoso.