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Ero uscito. Un grande portico rosso dalle lucerne moresche: dei libri che avevo letti nella mia adolescenza erano esposti a una vetrina tra le stampe. In fondo la luminosità marmorea di un grande palazzo moderno, i fusti d’acciaio curvi di globi bianchi ai quattro lati.

La piazzetta di S. Giovanni era deserta: la porta della prigione senza le belle fanciulle del popolo che altre volte vi avevo viste.

Attraverso a una piazza dorata da piccoli sepolcreti, nella scia bianca del suo pennacchio una figura giovine, gli occhi grigi, la bocca dalle linee rosee tenui, passò nella vastità luminosa del cielo. Sbiancava nel cielo fumoso la melodia dei suoi passi. Qualche cosa di nuovo, di infantile, di profondo era nell’aria commossa. Il mattone rosso ringiovanito dalla pioggia sembrava esalare dei fantasmi torbidi, condensati in ombre di dolore virgineo, che passavano nel suo torbido sogno (contigui uguali gli archi perdendosi gradatamente nella campagna tra le colline fuori della porta): poi una grande linea che apparve passò: una grandiosa, Fonte/commento: Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/181