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della città rotta di torri gotiche. E così ogni sera coricandomi nella mia prigionia salutavo la primavera. E una di quelle sere seppi: il Russo era stato ucciso. Il pulviscolo d’oro che avvolgeva la città parve ad un tratto sublimarsi in un sacrifizio sanguigno. Quando? I riflessi sanguigni del tramonto credei mi portassero il suo saluto. Chiusi le palpebre, restai lungamente senza pensiero: quella sera non chiesi altro. Vidi che intorno si era fatto scuro. Nella camerata non c’era che il tanfo e il respiro sordo dei pazzi addormentati dietro le loro chimere. Col capo affondato sul guanciale seguivo in aria delle farfalline che scherzavano attorno alla lampada elettrica nella luce scialba e gelida. Una dolcezza acuta, una dolcezza di martirio, del suo martirio mi si torceva pei nervi. Febbrile, curva sull’orlo della stufa la testa barbuta scriveva. La penna scorreva strideva spasmodica. Perchè era uscito per salvare altri uomini? Un suo ritratto di delinquente, un insensato, severo nei suoi abiti eleganti, la testa portata alta con dignità animale: un altro, un sorriso, l’immagine di un sorriso