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l’infelice vittima di questa sventura, dall’altro lato non può mancare una commiserazione anche più nobile per chi oggi è imputato di questa sventura! L’idea di una colpa, sia pure lieve, lievissima, scomparisce, dove lo impero di una fatalità domina tutte le menti, dove l’ansietà e la trepidazione non è nel solo imputato ma nel cuore e sul volto di tutti gli onesti, il cui voto palese è la salvezza, la inimputabilità del sig. Colarusso.
I magistrati, come la S. V., vedono quando la legge deve affermarsi - vedono quando la legge deve tacere per dar luogo alla voci della umanità e della equità. Come si può pensare alla pena, se non si può deplorare che una sventura, se una forza superiore è arbitra crudele de’ fatti umani?
Il deplorevole evento non è da imputarsi nè a Colarusso nè ad altri ma a quel grande colpevole che è il caso. Se da quel colpo esploso per fatale concorso di circostanze venne un gravissimo danno, fu damnum fatale; se il sig. Colarusso ha dovuto finora subire le ansie penose di una imputazione, non è sua colpa ma infelicitas fati.
E quando si pensa che per questa cieca volontà del fato il sig. Raffaele Colarusso, uomo di mitissimo animo, incapace di far torto ad alcuno, ebbe il dolore tremendo e inenarrabile di vedere ucciso dalla sua arma un suo simile e che poco mancò vedesse restarne colpiti la sua diletta consorte o uno dei suoi figliuoli - quando si pensa quale sciagura immensa piombò sul capo di un giovane