simamente Virgiliani. Che sarà di tante buffonerie, stravaganze, ed oscenità, che l’Ariosto medesimo fanno arrossire? Vi so dir che il mio stile a questa volta perde il titolo di virginale, che un tempo ottenne. Ma se l’Ariosto, ripigliò Orazio incollerito, l’Ariosto stesso ho veduto io ed udito ridersi de’ suoi capricci, e se chiamar pazzo non men d’Orlando; or cedano entrambi al traduttore, che certamente maggior follia non può darsi di quella che fa spendere a un uomo ben nato molta parte della sua vita in opera sì faticosa, e al buon giudicio sì opposta. E pur mostra costui diplomi, ed elogj, ed approvazioni de’ letterati suoi coetanei, da’ quali or or si partì, con gran danno, dic’egli, della Repubblica Letteraria. Convien dir veramente che abbiano gl’italiani travolte le idee dell’ottima poesia, e che i giudici d’essa sian pedanti, o sofisti di professione. E pretende costui un luogo tra noi per l’autorità di cotai lodatori, e perche? Per aver fatto latino l’Orlando? Ma chi nel richiese? Una qualche latina nazione nuovamente risorta che non intenda le lingue volgari; e chi l’ha a leggere, in un tal secolo, in cui bisogna volgarizzare i latini perche sian letti? Quale utilità, qual diletto, qual merito è dunque in ciò? E per ciò fare, due grossi Tomi di cotal merce s’hanno ad empiere ed ornarli perfino degli argomenti de’ canti e di tutte le allegorie messe in latino, certo cred’io la prima volta che in latino si troveranno allegorie in un poema, e un intrepido stampatore si trova che sa non impallidire all’aspetto d’un precipizio? Oh noi beati che allor vivemmo, quando a scrivere con istento sulle tavolette di cera eran costretti i copisti ad usar lo stiletto! O come sariano moltiplicati i Codri e i Mevii, se la stampa li soccorreva? Eh vada dunque il