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— Sì, sì azzurro chiaro, sclamò la fanciulla volgendo a lui il volto raggiante, il colore del cielo, quello appunto che ricordo meglio d’ogni altro. Prima mi diceste solo azzurro; dunque è azzurro chiaro.
— E svolazzante, suggerì Caleb.
— Sì, svolazzante, ripetè la cieca ridendo di cuore. E voi, caro babbo, avvolto in esso col vostro sguardo tanto gaio, il vostro bel sorriso, il passo svelto ed i capelli neri, come dovevate sembrar giovane e bello.
— Olà, carina, disse Caleb, tu mi fai invanire.
— Io penso che è già fatto, gridò la cieca, minacciandolo con gaiezza. Io vi conosco, babbo; ah! ah! ah! vi ho scoperto, lo vedete.
Qual contrasto fra l’immagine creata dalla sua mente e quel Caleb che le sedeva di fronte e la contemplava mestamente.
Aveva parlato del suo passo spedito ed aveva ragione. Erano lunghi anni che Caleb non dimenticava mai nel varcar la soglia di mutare il suo passo lento e stentato in altro più acconcio all’udito della cieca. Per quanto fosse oppresso il suo proprio cuore, giammai aveva egli dimenticato il gaio cicalare, che doveva rendere lieto e coraggioso quello della diletta infelice.