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N.
— E che importa a me più esser sano o ammalato se devo morire? O se pur c’è una differenza più mi sarà doloroso abbandonare questo mondo che a me sano sarà lieto, che abbandonare un luogo di tormento per cessare nell’incoscienza il dolore del male. Chè se la morte è il supremo dei mali è per la via degli altri mali ch’io potrò prepararmi a sopportarlo.
R.
— Dici bene, ma dimmi: come si fa a sopportare il male? Forse che perchè io lo sopporti esso diventa meno male di quanto fosse prima o come avviene?
N.
— Certamente esso resta quale è, ma io non lo sento più così come prima lo sentivo.
R.
— Così dunque come il freddo è male quando il tuo corpo s’irrigidisce e il sangue non circola più e tu senti dolore a ogni estremità, ma se tu con la ginnastica e l’abitudine indurisci il corpo prima e quando ogni volta nel freddo tu non cerchi riparo, ma cerchi col movimento di far circolare il sangue, tu potrai sopportar quello senza dolore e non ti sarà più un male.
N.
— Così appunto.
R.
— E lo stesso si può dire del caldo, e delle privazioni, e della fatica, e dell’insonnia, e di tutte le altre cose simili.
N.
— Certo.
R.
— Ma dimmi se ciò che può esser male e può non esser male, può esser male per me e non esser male per te, e per me può esser male talvolta e talvolta no, lo possiamo chiamare male (per sè stesso) — così da esser male sempre e per ognuno, e da ammalare chi ne sia affetto?