costumi, e la troppa libertà concessa, maledici gli usi della tua famiglia, la tua famiglia. Tu mi avevi interrotto, volevi dire perchè io parli di «queste miserie»? Aspetta! Tu maledici la tua famiglia — la famiglia — la necessità del nascimento — la vita — il mondo — la vanità delle cose. «Mi ammazzerò», pensi. E aggiungi, inintelligibile quasi a te stesso: «e poi vedranno». — Vedranno, e che cosa? «Vedranno come io non dò valore a tutte le loro cose, come sono superiore, capiranno come quando m’arrabbiavo ero mortalmente divinamente triste....» Queste cose forse le sai meglio ch’io non le possa dire.
N.
— È così, sì, è così.... ma tutti non possono essere come tu sei.
R.
— Come me? come me dici? ma io queste cose le so per esperienza.
N.
— Tu?
R.
— Io sì, io, che ambulavo per le vie e per i monti con l’uno o l’altro degli amici e parlavo della virtù e della fermezza, e del coraggio, e della «vanità del tutto», e della vita e della morte, e poi consegnavo uno scapellotto quanto mai profondo e filosofico a mio fratello, se ardiva di turbar la pace del mio santuario dove io fabbricavo la saggezza; a chiudere la porta in faccia alla mamma....
.... Mia mamma taceva, alle volte piangeva; mio fratello una volta invece di protestare rumorosamente si irrigidì, strinse i pugni e s’avviò senza dir parola. Lo raggiunsi, lo guardai e gli