E poichè la sfrenatezza è più comune della prudenza, e per il disinganno, fido seguace del desiderio, ma sempre più forte a trascinare anche il prudente alla violenza (πολύφρονα περ χαλεπῆναι), la rabbia è il Leitmotiv della vita sociale — la rabbia impotente, che si sfoga sui prossimi, sulle cose, sul corpo, sempre impotente, sempre di sè stessa crescente (perchè quanto più è dolorosa e più s’accresce). E da questi parossismi giù fino alle insofferenze, agli sgarbi, essa accompagna l’uomo civile in ogni istante della sua vita.
Chi ha tutto da sè, l’uomo in natura, non conosce la rabbia impotente. La conosce chi ha bisogno dell’opera altrui, di singoli o di istituzioni; e che se questi anche d’un poco sgurlano, è in loro balìa, dipende da loro, e non può che con la rabbia sfogare la sua impazienza e l’insopportabile senso della dipendenza.
Le grida delle persone arrabbiate sono il cigolìo di tutte le commessure della macchina sociale che non ha trovato ancora il suo giusto punto. Quanto più l’uomo s’allontana dalla natura tanto più è impotente, iracondo (ammalato), e quanto più forza ha in sè tanto più insofferente. La cosa ormai non è più soltanto individuale, ma per secolare spostamento atavica. E la scienza compiacente ha trovato alla società subito un nome, e un diritto d’esistere a questo male inevitabile; e ogni atto di meschinità ha ricevuto la sua tessera di passaggio sotto il nome di nervosità.
Ora quando uno fa atti pazzeschi di rabbia, umiliando la propria dignità all’infinitamente