che stende la mano pur a quello che ora, qui gli si offre, che lo possa comunque trastullare, per la cura che gli possa sfuggire, se anche poi non gli abbia a dare quello che egli crede, e gli debba venir meno, quando più egli ne sarà bisognoso — il gaudente è quello che più s’affida e più è giocato e che più è in balìa del comune nemico. Egli è come quel generale che per non
sottomettersi a ciò che non gli faceva comodo,
viveva in vicinanza del nemico come in tempo
di pace. Egli crede reale quell’aspetto che le cose hanno nel momento attuale, e vi s’affida, mentre esso non appartiene che all’arbitrio de nemico che lo insidia. L’aspetto gli è sufficiente, perch’egli presuma di sè d’esser padrone delle cose. Vuole da questo aspetto il piacere, e teme che se questo gli sia tolto, gli sia tolta ogni possibilità di godere; ma il piacere non potrebbe venirgli che dalla sicurezza interna della pace.
Egli nè ha in sè la sicurezza delle cose necessarie al corpo o dell’integrità del corpo, ma s’affida al lavoro altrui; nè ha in sè la sicurezza dell’amore degli uomini per lui, ma s’affida al ritegno convenuto, e li teme, o se può li opprime.
Gli uomini s’affidano l’un l’altro il lavoro
che ognuno dovrebbe compiere per avere in sè
la sicurezza di sè stesso. Essi invece speculano sulla comune debolezza per creare una sicurezza fatta di reciproca convenzione. Così non solo non hanno più da avere in sè la sicurezza verso il loro simile, ma anche verso il resto della natura, poichè ognuno fa una piccola subordinata cosa,