d’esser diverso da me stesso, anzi a me stesso contrario — nè tu, com’io credo.
N.
— No di certo. Ma io ho detto or ora ciò che mi sembra giusto così che non ho che dire. Va tu innanzi.
3. R.
— Bene: tu hai parlato di accidenti, di malattie, come di mali reali, che per la loro presenza ammalano chi li ha per sano che fosse prima, e della morte come del male supremo che ci toglie non pur la salute ma insieme toglie ogni valore alla distinzione fra salute e malattia. — È così?
N.
— Appunto.
R.
— Ora dimmi: sai tu indicarmi la malattia cosa sia? Poichè se son mali bisogna bene che siano qualche cosa.
N.
— Certamente: quali la tisi o la pulmonite o il tifo....
R.
— Bene — ma ognuna di queste che cos’è?
N.
— Dicono che siano bacilli.
R.
— Ma questi bacilli come sono essi dei mali, che cos’è il loro esser mali?
N.
— Perchè sono perniciosi all’uomo.
R.
— Allora sono mali quando l’uomo li ha addosso?
N.
— Certo.
R.
— Ma quando non sono addosso all’uomo non sono nè mali nè beni.
N.
— Di necessità.
R.
— Allora nuovamente abbiamo bensì uomini ammalati, ma non abbiamo il male. Ma dimmi, gli accidenti cosa sono?