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egli ancor vel mantenne, e impedì che la lotta avesse fine. Era naturale: la guerra non può finire, se non vinto il nemico, e l’unico nemico era la corruzione di questo clero aulico.
Supponiamo che Enrico avesse dato orecchio alle paterne e giustissime voci del Capo della Chiesa; o che riconciliato la prima volta col Pontefice nel castello di Canossa, non fosse stato dai Vescovi iniqui, che si servivano di lui a scudo di sè e de’ propri vizi, travolto ne’ suoi antichi sregolamenti. Tutta la procella sarebbesi tosto abbonacciata: il re, come era stato assoluto senza dilazione dalla scomunica, così sarebbe rimasto in perfetta pace colla Chiesa: egli avrebbe conservato il suo regno, e il pio Pontefice, stringendosi al seno colle viscere le più paterne, l’avrebbe bagnate colle copiose lagrime della pura sua gioia. Ma se la pretesa lotta fra il sacerdozio e l’impero fosse così subito nel suo nascer finita, come di sua natura dovea, che ne sarebbe avvenuto de’ prelati intrusi, simoniaci, concubinari? Essi ne sentivano bene le conseguenze: sentivano che sarebbe stato de’ loro vizi: che della loro vita ribalda e sfrenata: che de’ ricchissimi benefici caramente da lor comperati: che delle loro donne: che della grazia del principe loro complice ravveduto. Ciò tutto spiega, e mostra ragione più chiara del sole per la quale una tal gente andasse nelle disperazioni all’udire Enrico riconciliato col Papa; e gli estremi mezzi adoperasse a farlo ricadere in precipizio, rompendola di nuovo così col Pontefice e colla Chiesa1.
98. Si vuole un’altra prova, che non erano i diritti dell’impero l’oggetto di quegli infelicissimi e sì lunghi contrasti? Richiamisi alla mente quanto avvenne mezzo secolo dopo fra Enrico V e Pasquale II. Questo immortale Pontefice ha fatto sentire un linguaggio, che nella bocca di qualsiasi Papa dell’antichità non si sarebbe potuto trovare nè più santo nè più elevato: e mostrò col suo contegno, come nella sede di Pietro non è venuto mai meno lo spirito dell’apostolato, e come il Vangelo di Gesù Cristo eterno non ha il ieri e l’oggi. Io credo di dover recare le proprie parole del componimento con Enrico V che questo gran Papa propose: conciossiachè esse sono un monumento luminosissimo, il quale prova non essersi potuto giammai spegnere nella Chiesa, nè manco ne’ secoli più miserandi, quell’altezza di pensiero che solleva il sacerdozio cristiano su tutte le altezze e su tutte le dovizie transitorie della terra, e il fa possente della sola parola di Dio. Nello stesso tempo questo brano di Pasquale II può dimostrare quanto i sommi pontefici abbiano conosciuto intimamente quel vero che noi continuamene diciamo, la servitù e la corruzione del Clero scaturire dall’implicarsi questo ne’ negozi secolari. Il Papa in somma con un atto di magnanimità senza esempio propone,
- ↑ Quando Enrico ottenne da Gregorio vii nel castello di Canossa l’assoluzione della scomunica, allora i Vescovi del suo partito furono desolati del vedere abbandonata la loro causa dall’imperatore, e Ruberto di Bamberga, Uldalrico di Costreim, ed altri primarî consiglieri delle sue scelleratezze, de’ quali il Papa, nell’assolvere il re, aveva messo per condizione l’allontanamento dalla corte, e dalla reale persona, con altri Vescovi lombardi dello stesso taglio, fecero tanto rumore, minacciando ribellione, tutto per zelo, com’essi ostentavano, della regia dignità disonorata da Enrico nell’umiliarsi in tal modo sotto il Pontefice; che travolsero Enrico dal suo buon proposito, e il fecero tornare al vomito. Era singolare la logica di questi prelati! La dignità reale era disonorata perchè s’era lasciata correggere dei suoi vizî dal Papa: perciò intendevano di gastigare essi il re et quidem per via di fatto!
nos, gli scrive, et infelices! partim pueritiae blandientis instinctione, partim protestativae nostrae et imperiosae potentiae libertate, partim eorum, quorum seductiles nimium secuti sumus consilia, seductoria deceptione, peccavimus in coelum et coram vobis, et jam digni non sumus vocatione vestrae filiationis. Non solum enim nos res ecclesiasticas invasimus, verum quoque indignis quibuslibet et simoniaco felle amaricatis et non per ostium sed aliunde ingredientibus Ecclesias ipsas vendidimus, et non eas, ut oportuit, defendimus etc. (Vid. t. I. Constitut. Imperial. Goldasti).