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come il sole. Veggiamo che direbbero que’ grandi Pontefici dello stato nostro, in cui non si fanno, in gran parte delle nazioni cattoliche, altre elezioni vescovili, che quelle che i sovrani da sè fanno; e se miseri o felici se ne riputerebbero. Basteranno due fatti.

L’orribile persecuzione di Enrico v contro Pasquale ii, il carcere, le ignominie, gli stenti, la prossima morte, le stragi della città e del territorio romano, gli sforzamenti, i rubamenti, l’infelicità de’ buoni senza scherno in preda a sfrenatezza di barbare milizie non guidate ma incitate dall’ira di uno spergiuro imperatore, che poterono ottenere finalmente dal magnanimo Pontefice? Un privilegio d’investire i Vescovi delle rendite episcopali colla verga e coll’anello; ma a condizione che questi Vescovi fossero prima eletti canonicamente, liberamente, senza simonia, senza «violenza1», e apposte altre condizioni ancora che ristringevano il privilegio. E parve ad Enrico d’averla spuntata, carpendo all’oppresso Pontefice un privilegio di tal natura. E pure il privilegio non conferiva punto nè poco facoltà all’imperatore d’ingerirsi nelle elezioni nè nella ordinazione, e solo quella di acconsentirvi, e di mettere l’eletto in possesso del vescovato. Or che perciò? Tutta la Chiesa parve si sollevasse contro Pasquale, acclamasse aver egli diminuita l’ecclesiastica libertà, e minacciava uno scisma. E perchè? per aver conceduto al re solo di fare una cerimonia poco conveniente, quella cioè d’investire il Vescovo colla verga e coll’anello, segni della episcopale giurisdizione. E pure il re protestava che non intendeva dare con quella cerimonia al Vescovo se non il possesso de’ beni temporali2: ma non s’appagò di questo la Chiesa: conciossiachè il bastone e l’anello erano veramente simboli di qualche cosa di più, e l’investitura tenea seco la necessità dell’assenso del principe, acciocchè l’eletto entrasse Vescovo: indi d’ogni parte Concilii, prelati, assemblee di Cardinali contro la concessione strappata al Papa, e fin minacciossi di torsi dall’ubbidienza di quel Pontefice santissimo. Per acquetare tanto subbollimento di animi non ci volle meno dell’eroica umiltà del Pontefice. Egli riconobbe d’aver trapassato i limiti del dovere raccolse un Concilio nella Basilica di Laterano, vi si presentò come reo, accusò sè stesso, depose le insegne pontificie, dichiarò esser pronto di rinunziare al pontificato per dare soddisfazione alla Chiesa, e commise la propria correzione al giudizio de’ Padri. E «quello scritto, egli disse, che io feci senza il consiglio o le sottoscrizioni de’ fratelli, stretto da grave necessità, non per cagion della vita, della salute e gloria mia, ma per sole le strettezze della Chiesa, nella quale nessuna condizione o promessa ci obbliga, siccome io lo conosco per mal fatto, così per mal fatto lo confesso, e desidero al tutto, col divino aiuto, di correggerlo: e il modo di una tal correzione io lo rimetto al consiglio e al giudizio de’ miei fratelli qui convenuti; acciocchè non nasca forse per ragion d’esso in avvenire qualche danno alla Chiesa, o qualche pregiudizio all’anima mia». Il Concilio, esaminato l’affare, pronunziò poscia questa sentenza: «Quel privilegio, che non è privilegio, nè dee dirsi tale, che fu estorto dalla violenza del re Enrico per la liberazione degl’imprigionati e della Chiesa, dal Signore Pasquale Papa; Noi tutti congregati in questo Concilio col Signore Papa medesimo lo condanniamo di canonica censura, e coll’ecclesiastica autorità, per giudizio dello Spirito Santo, e lo dichariamo irrito, e del tutto il cassiamo,

  1. .... Ut regni tui Episcopis et Abbatibus libere praeter violentiam et simoniam electis investituram virgae et annuli conferas, dice il privilegio, presso Guglielmo di Malmesbury, Lib. v. de Gestis Regum Anglorum.
  2. Non Ecclesiae jura, non officia quaelibet, sed regalia sola se dare assereret (Henricus). Così attesta Pietro Diacono Lib. iv Chronici Cassinensis, Cap. xlii.