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— 3Ì — con tutta dirittura giudicarne „; e che questo e " l’aversi fisso ben nell’animo che in Dante fossero molte imperfezioni e insomma che sapesse poco, lo fece incorrere in molti errori e talvolta da ridere „ (^). E alcuni di questi andò notando in quei quaderni, dove raccoglieva tutte le osservazioni che man mano gli venivan fatte leggendo, preziosi documenti a noi, oggi, dell’erudizione e dell’assennatezza del buon priore degli Innocenti (2). Ma quanto fu gentile col Bembo, tanto fu aspro contro coloro, che, messisi per le orme di lui sforniti di quella dottrina che ornava l’autore delle Prose della volgar lingua, non toscani e dei costumi di Toscana e dell’antica lingua non intendenti, osavano censurar Dante per vocaboli che non capivano, mentre erano proprissimi ed efficaci. S’era fra costoro mostrato il più ardito Girolamo Ruscelli nel suo vocabolario; tanto da suscitare le ire del Lasca che, offeso della sua sfacciataggine, in un sonetto lo ricopri di contume(*) Difesa speciale contro quello di che V incolpa il Bembo ^ e dichiarati alcuni luoghi, ove par che lo biasimi, che non è; anzi è un mostrar le differenze della eia (Misceli, cit. )• (*) Né solo notava gli errori; ne trovava con acutezza le ragioni: «Egli è cosa comune ( osservava), comunque si crede d’uno poco bene e che non sappia, non tener conto delle sue cose, e, senza troppo pensarci, crederle errori; dove pel contrario, se abbiamo grande opinione del senno e della dottrina d’alcuno, se bene dica qualche cosa, che non la capiamo cosi bene o pur ci sembri un poco scorretta, per la tanta fede che abbiamo nell’autore, non possiamo credere che vi sia errato, e contro una forza della natura vinti da altra forza d’essa natura, c’induciamo più volentieri a sentir non bene del proprio giudizio nostro, e crediamo di non intendere, per non aver a perdere quella prima impressione già ferma del saper di colui» (Difesa cit.).