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casse loro? Questo stesso luogo, che tu chiami esiglio, è a coloro, che l'abitano, patria; tanto è vero che niuna cosa sia misera, se non quando la reputi tale; e per lo contrario ogni fortuna è beata, quando così la reputi chi la tollera. Chi è sì felice, che, quando si sarà alla impazienza arrenduto, non desideri di mutare il suo stato? Oh di quante amarezze è spruzzata la dolcezza dell'umana felicità, la quale se ancora a chi la gode paresse gioconda, non si può perciò ritenere che ella, quando vuole, non si parta! Manifesto è dunque quanto sia misera la beatitudine delle cose mortali, la quale nè appo quegli, che ripigliano ogni cosa per bene, dura perpetua, nè gli angosciosi diletta tutta. Perchè dunque, o mortali, cercate di fuori la felicità, che è dentro voi posta? l'errore e l'ignoranza vi rimescola e perturba. Io voglio mostrarti brevemente la maggiore altezza della felicità. Dimmi: hai tu cosa alcuna, che ti sia più cara di te stesso? Niuna, dirai. Dunque, se tu avrai te medesimo, tu possederai quella cosa, la quale nè tu vorrai perder mai, nè la fortuna ti potrà tôrre. E, a fine che tu conosca che in queste cose della fortuna non può la beatitudine nostra consistere, raccogli così: se la beatitudine è il sommo bene di quella natura che vive con ragione, cioè degli uomini, e quello che in alcun modo ne può essere tolto non è il sommo bene, perciocchè quello che non puote esserne tolto è più degno di lui; manifesta cosa è, che a comprendere e ricevere in sè la beatitudine non può l'instabilità della fortuna aspirare. Oltra ciò colui, il quale è portato da questa felicità