Pagina:Della consolazione della filosofia.djvu/130

130

cuno, perduto del tutto il vedere, si sdimenticasse ancora d’avere avuto la vista, e arbitrasse che nulla gli mancasse a essere uomo perfettamente, penseremo noi per questo che quegli che veggono fossero ciechi? Perchè gli uomini volgari, se tu non lo sapessi, non si queterebbero anco, nè potrebbero mai credere quello, il che medesimamente sopra forti e gagliarde ragioni è fondato, cioè più infelici essere coloro i quali fanno l’ingiuria, che quegli non sono i quali la ricevono. Queste cotali ragioni vorrei udire io, risposi. Neghi tu, soggiunse, che ogni malvagio sia degno di pena? Per me no, risposi. Che quegli che sono malvagi siano, disse, infelici è noto per molte ragioni. È vero, risposi. Dunque, soggiunse, tu non dubiti che quegli siano miseri, i quali di pena degni sono. Noi siamo d’accordo, risposi. Se tu dunque, disse ella, sedessi giudicatore, a cui reputeresti tu che si dovesse dare il castigo? a colui che avesse fatto, o a colui che avesse sopportata l’ingiuria? In questo non ho io, risposi, dubbio nessuno, che io non volessi soddisfare allo ingiuriato col dolore dello ingiuriante. Dunque il fattore della ingiuria, disse, più che il ricevitore esser misero ti parrebbe? Così ne segue, risposi. E così per questa cagione, e per altre le quali in su quella radice si fondano, che la bruttezza e disonestà fa di sua natura gli uomini miseri, apparisce che la ingiuria, a chiunque si voglia fatta, non di chi la riceve è miseria, ma di colui che la fa. E pure, rispose ella, il contrario fanno oggi gli oratori, i quali per coloro si sforzano di muovere a compassione i giudici, che sostenuto