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e reputa principalissima riforma dell'odierno diritto femminile, e quasi panacea di tutti i mali morali della società. Egli è bensì vero che l'autrice non amerebbe una soverchia facilità di divorziare, e vorrebbe anzi nella legge opportuni «temperamenti», onde rendere difficile l'applicazione di quel diritto, e prevenirne l'abuso1, ma ciò che più importa qui di notare sono le gravi illusioni in cui ella è caduta circa l'efficacia morale di tale istituzione ai tempi nostri. Aprendo la porta, essa dice, della libertà coniugale, si renderebbe più facile ai coniugi il vivere in una situazione scelta da loro, non si lascerebbe più sussistere nessuna falsa posizione, nessun pretesto alle illegalità, alla infrazione delle leggi e al celibato2. Tutte le donne, potendosi rimaritare secondo il loro cuore, non avrebbero più necessità di vivere fuori della legge; il disordine sarebbe relegato in così bassa sfera, che non darebbe più scandalo3. Come se nel matrimonio le donne saggie, e gli uomini altresì, potessero seguire soltanto «la legge del cuore», e come se, anche esistendo il divorzio, non ci potrebbero ancor essere infiniti casi nei quali una moglie disonesta avesse tutto l'interesse di soddisfare le sue prave tendenze ingannando il marito, per non dargli motivo di invocare lo scioglimento del matrimonio! Come mai una così ingegnosa scrittrice non ha riflettuto che il divorzio può essere una sanzione efficace della moralità coniugale, dove il sentimento dei doveri di marito e di moglie sia abbastanza forte e saldo, e generalmente diffuso, ma nella contraria ipotesi può invece diventar fomite di maggiore immoralità in quelli fra i coniugi che hanno meno da temere dallo scioglimento del matrimonio, e di una maggiore ipocrisia in quelli che lo devono maggiormente paventare?

Io aborro per sistema da ogni indiscrezione e malizia nello

  1. Ib., p. 61.
  2. Ib., p. 62.
  3. Ib.