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facili a designarsi, e per conseguenza facili a correggersi; mentre i partigiani della legge comune, esaltando sempre questa dea che adorano, negano di riconoscere in essa alcun difetto e di confessar cosa alcuna che possa diminuirne la gloria.

Ma una legge naturalmente sì incerta, sì sottoposta alle costruzioni forzate, alle distinzioni interpetrative, non offre forse una trista tentazione a quelli che sono incaricati della sua applicazione come difensori o come giudici?

Io prego i lettori a considerar la massima seguente. «Nella maggior parte dei casi profondamente discussi sotto la legge comune, il giudice avrebbe potuto senza rimprovero alla sua probità od al suo sapere pronunziare una decisione direttamente opposta a quella emanata.» Non trovo scritta questa massima in verun luogo; ma non v’è un giurista in Inghilterra che non l’abbia intesa ripetere dai suoi colleghi; un solo che non ne abbia riconosciuta la verità con la propria esperienza; e tuttavia non v’è forse un solo che scorga quanto biasimo questa massima contenga contro una legge, che offre ai giudici un mezzo sicuro per emanare contradittorie decisioni.

«Non v’è causa che debba abbandonarsi come disperata.» Che pensar d’un sistema che ha motivata una tal sentenza. Tuttavia con queste espressioni, in questi precisi termini fu pronunziata da un distintissimo giureconsulto inglese, Vedderburn, allorchè era difensore ben presto poi elevato alla giudicatura col titolo di Lord Longhborough, e divenuto quindi cancelliere e motor della legge.