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54 | l’olimpia |
tanto sottili che traspaiono come lanterne, che te ne potresti servir per occhiali; due oncie di carne tanto minutata sottile come se volessi dar a beccarla a losignuoli; pan duro di dieci giorni che ci bisogna la fame di tre settimane per divorarlo. E appena si comincia a mangiare che ti senti dare in capo il «buon pro ti faccia», «abbi pazienza», «fu all’improviso», «l’acconciaremo un’altra volta».
Squadra. Non dir questo, Mastica, ché in tavola sua mai ti mancaro né galline né polli.
Mastica. Sí, certi polli che appena aveano la pelle come se avessero avuti tutti i pensieri del mondo o fussero ettici o avessero avuto la quartana dieci anni; o qualche cornacchia vecchia che fattala bollir tutto un giorno non si potea masticare.
Trasilogo. Taci, ruffianello macro, morto di fame.
Mastica. Io morto di fame? se mi porrò mano in gola, vomiterò tanta robba che potrò dar a magnare a dieci di pari tuoi.
Trasilogo. Squadra, porta qua dieci some di bastoni, ché non posso sopportar piú. Poltron, non parlare se non quanto le tue spalle ponno sopportar bastonate.
Mastica. Non ti mette conto che m’uccidi.
Trasilogo. Perché?
Mastica. Perché morto che serò io, tu serai il piú gran poltron del mondo.
Squadra. Taci, Mastica. Vuoi tu ucciderti con lui?
Mastica. Non ci uccideremo, no: poltron con poltrone non si fa male, «corvo con corvo non si cava gli occhi».
Trasilogo. Partiamci, Squadra, ché non è ben che un par mio stia a contender con lui, né io uso armi con la canaglia: lascio che gli ospedali e i pidocchi faccino la vendetta per me.
Mastica. E io che la fame la facci per me e che ti strangoli la gola, poiché sempre in casa tua si fa dieta come gli ammalati. Si pensava questo asino che se non mangiava in casa sua che mi morissi di fame: vo’ che mi preghi. Será piú quello che butterò questa sera, che quanto egli ha mangiato un anno in casa sua. Avisarò Lampridio e Sennia di questo inganno che voglion fare, acciò quando verranno gli diamo la baia.