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40 | l’olimpia |
Lampridio. Mastica, non lo dirá, perché li terremo la bocca otturata con migliacci e maccheroni che gl’ingozzeranno, né potrá parlar se ben volesse.
Protodidascalo. Un altro li dará da ingurgitar vino, manderá giú quelle polente mileacee suffrixe che tu dici e vomiterá con quella ingluvie quanto saprá di voi. Ma come diresti latinamente i maccheroni? Ascolta: è una certa radicula detta «macheronium», che anticamente si commendava ne’ panefici; però quelli pastilli farinacei si direbbono eleganter «macheronei».
Lampridio. E quando si scoprisse, non saremo uomini da fugir di Napoli, di Roma e tutto il mondo?
Protodidascalo. Il medesimo dicono i malefici e facinorosi, e senza avedersene si trovano il carnefice sugli umeri, alle tergora.
Lampridio. Se tutti avessimo il gastigo de’ peccati che facciamo, non si trovarebbono tante fune per far tanti capestri.
Protodidascalo. Forse a coloro favorisce la sorte. Ma ascolta questo duodecasticon che consta di anapesti, coriambi e proceleusmatici in favor della sorte:
O sors mala... .
Lampridio. Non, no di grazia, non è tempo adesso di queste baie. Non mi turbar la presente allegrezza con questi tuoi amari ricordi, ché l’animo determinato non ave orecchie.
Protodidascalo. Voi gioveni, eccitati dall’illice d’amore, d’ogni cosa volete scapricciarvi, e la voglia v’impiomba cosí l’orecchie che non vi fa animadvertere cosa alcuna. Questa frode che usi per fruir la clavigera del cuor tuo, non è altro che seminar il canape per tesserne un laccio con che il prelibato carnefice ti chiuda la vita. Sai quanto in Napoli s’osserva la giustizia, e tu sei forastiero.
Lampridio. Taci, vattene vattene; ecco Olimpia mia.