Pagina:Della Porta - Le commedie II.djvu/39


atto secondo 27

SCENA IV.

Giulio, Lampridio, Protodidascalo.

Giulio. Lampridio caro, oggi troveremo Mastica e c’informeremo meglio del negozio: forse non será cosí.

Lampridio. Questo «forse» non mi rileva nulla.

Giulio. Intanto andiamo a pranso.

Lampridio. Andate a pranso voi, ch’io non pranserò né cenerò piú mai.

Protodidascalo. Vuoi tu per questo appeter la morte?

Lampridio. Assai meglio che mal vivere. Sendo mancata la mia fé nel cuor di quella di cui l’imagine è piú viva nel mio che non v’è l’anima istessa, ed essendo morta per me chi era cagione che a me fusse cara la vita, non mi curo piú d’anima né di vita.

Giulio. Sei tu disperato?

Lampridio. Eh, Olimpia Olimpia, non son queste le parole che mi dicesti partendoti da me: che piuttosto il sole sarebbe mancato di luce che tu giamai di fede, o che il tempo bastasse ad intepidirti l’ardore che mostravi tener acceso nel petto per amor mio! Ed è possibile che nel cuore, donde sono uscite queste parole, or vi sia entrata tanta oblivione? Sia maladetto tal core e sia maladetta, Amor, la tua potenza, che in quel core ove piú regnar dovresti ti lasci come vil servo vincere e dispreggiare. ...

Protodidascalo. Lasciategli essalar gl’ignicoli accensi nell’intimo del suo core, che exarso dalla concupiscenza abbi l’egresso per questi respiracoli.

Lampridio. ... Capelli, questo mio braccio non è piú vostro luogo! Verde seta, quanto mal fosti intrecciata con essi: mi promettesti speranza ma è giá morta ogni speranza per me. Voi m’avete ingannato; ma chi non areste ingannato se ci foste avolti da quella con tante belle maniere e tanti baci? Io calpesto cosí voi come ella ha sprezzata e calpestata la mia fede. Anello, tu