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atto secondo | 25 |
Lampridio. Par che l’animo se l’indovini.
Giulio. Forse è per ritornarne a Salerno di corto e vorrá ella istessa darti la nuova della sua venuta e risparmiarti questa fatica.
Lampridio. Non mi quadra, mi batte l’occhio dritto; e mi fu referito nel viaggio che si maritava con non so chi capitano suo vicino.
Giulio. Io non so nulla di ciò: questa è la casa del capitano che dite, e questi che viene è suo servidore; volete che gli ne dimandi? Non rispondete? volgete l’animo a me.
Lampridio. Non l’ho meco.
Giulio. Richiamalo a te.
Lampridio. Non posso, sta in gran tempesta, ondeggia. Ridillo, che non t’ho inteso.
Giulio. Vuoi ch’io ne dimandi questo servo?
Lampridio. Me ne faresti piacere.
Giulio. E vedrai quanto t’è stato detto tutto esser bugia.
Protodidascalo. Festina i celeri passi, vien alacre, baiula un simposio sive un convivio intiero, ch’è infausto augurio per voi. Vi son colombe, animal di Venere: dinota coniugio. Lampridi Lampridi, timeo actum esse de te.
SCENA III.
Squadra, Protodidascalo, Giulio, Lampridio.
Squadra. Sia benedetto Idio che siamo usciti di tanti «voglio e non voglio» e «che si facevano e che non si facevano»; ché al fin s’è voluto e si fanno queste nozze.
Protodidascalo. Rumina un certo quid de nupzie e ringrazia l’altitono Giove che sian pur fatte.
Giulio. Fermati, Squadra.
Squadra. Chi spensierato trattien un carico e che ha che fare?
Giulio. Un che ti spedirá tosto. Volgiti.
Squadra. Non posso volgermi: ho la schiena troppo dura adesso. Paga un che ti ubedisca.