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atto terzo 267

che l’avete mandato a donare, le catene e gli altri vezzi di donne?

Don Ignazio. Li conosco e mi rincresce conoscerli.

Don Flaminio. Vi lascio le sue cose in vece di lei per questo breve tempo che mi è concesso goderla.

Don Ignazio. Eccole, tornatele adietro.

Don Flaminio. Vi lascio la buona notte.

Don Ignazio. Anzi notte per me la piú acerba e d’infelice memoria che sia mai stata! O stelle nemiche d’ogni mio bene — ben posso io chiamarvi crudeli, poiché nel nascer mio v’armaste di cosí funesti e miserabili influssi, — deh, fuggite dal cielo, spengete il vostro lume e lasciate per me in oscure tenebre il mondo! O luna, oscura il tuo splendore e cuopra il tuo volto ecclisse orribile e spaventoso, e in tua vece veggansi orrende comete colle sanguigne chiome! O maledetto giorno ch’io nacqui e che la viddi e che tanto piacque agli occhi miei! Ahi, dolenti occhi miei, a che infelice spettacolo sète stati serbati insin ad ora! veder ch’altri goda di quella donna che mi era assai piú cara dell’anima istessa. Ahi, che sento stracciarmi il cuore dentro da mille orsi e da mille tigri, e la gelosia m’impiaga l’anima di ferite inmedicabili e immortali! Ahi, Carizia, cosí onori il tuo sposo? queste sono le parole che ho intese da te questa mattina? non avevi altri uomini con chi potevi ingannarmi, e lasciar mio fratello? e se mi dispiace l’atto, mi dispiace piú assai con chi l’hai tu adoperato.

Simbolo. Padrone, fate resistenza al male, ché non è maggior male che lasciarsi vincere dal male.

Don Ignazio. Ma io non sia quel che sono se non ne la farò pentire.

Simbolo. Dove andate?

Don Ignazio. A consigliarmi con la disperazione, con le furie infernali, ché non so quale in me maggior sia l’ardore, il dolore o la gelosia.

Don Flaminio. Panimbolo, son partiti?

Don Ignazio. Sí, sono.

Leccardo. Don Flaminio, come sei stato servito da me?