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266 | gli duoi fratelli rivali |
Martebellonio. Dite bene, e ti dirò la cagione. Poco anzi mi è venuta una lettera dall’altro mondo. Plutone mi si raccomanda e mi prega che non camini cosí gagliardo, che vada pian piano, ché tante sono le pietre e le montagne che cascono dagli altissimi vòlti della terra, che mancò poco che non abissasse il mondo e sotterrasse lui vivo con Proserpina sua mogliere. Gli l’ho promesso, e perciò non camino al mio solito.
Leccardo. Entrate, ché Calidora vi sta aspettando.
Don Flaminio. Che dici, fratello? è vero quanto vi ho detto? Io farò il segno: fis, fis.
Leccardo. Signor don Flaminio, Carizia vi prega a disagiarvi un poco, perché sta ragionando col padre.
Don Flaminio. Se ben è alquanto bellina, io non la teneva in tanto conto quanto voi.
Don Ignazio. Non vi ho io dimandato piú volte se in quel giorno della festa vi fusse piaciuta alcuna di quelle gentildonne, e mi dicesti di no?
Don Flaminio. Era cosí veramente; ma essendomi offerta costei con mio poco discomodo, me ce inchinai.
Leccardo. Signor don Flaminio, Carizia v’aspetta agli usati piaceri, e che le perdoniate se vi ha fatto aspettar un poco.
Don Flaminio. Don Ignazio, non vi partite; forse vi porterò alcuni de’ suoi abbigliamenti e de’ doni mandati.
Don Ignazio. Aspettarò sin a domani. — Che dici, Simbolo, aresti tu creduto ciò mai?
Simbolo. Veramente delle donne se ne deve far quel conto che dell’erbe fetide e amare che serveno per le medicine, che cavatone quel succo giovevole si buttano nel letamaro: come l’uomo si ha cavato quel poco di diletto che s’ha da loro, nasconderle ché piú non appaiano.
Don Ignazio. Veramente la femina è un pessimo animale e da non fidarsene punto. Ahi, fortuna, quando pensava che fussero finite le pene e cominciar la felicitá, allor ne son piú lontano che mai!
Don Flaminio. Don Ignazio, dove sète? Conoscete voi questa sottana gialla che portò quel giorno? non è questo l’anello