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atto terzo | 261 |
Don Ignazio. Io per diligente informazione, che per molti giorni n’ho presa da molte onoratissime persone, ne ho inteso tutto il contrario.
Don Flaminio. Dovete credere piú a me che a niuno.
Don Ignazio. Credo a voi non al fatto.
Don Flaminio. Anzi vo’ che crediate al fatto istesso non a me.
Don Ignazio. Ella è tanto onorata che la mia lingua s’onora del suo onore; e avendola ne resto io piú onorato. E voi, per farla da cavaliero, d’una gentildonna dovresti dirne bene ancorché fusse il falso, né dirne male ancorché fusse il vero.
Don Flaminio. Io non ho detto ciò perché sia mala lingua, ma perché sappiate il vero. Ma che non può la forza d’una gran veritá? Perciò non vorrei che correste con tanta furia in cosa ove bisogna maturo consiglio, e poi fatta non può piú guastarsi; e poi dal rimorso di voi stesso vi aveste a pentir d’una vana penitenza.
Don Ignazio. A me sta il crederlo.
Don Flaminio. A voi il credere, a me dir la veritá la qual m’apre la bocca e ministra le parole. Ma io, che tante volte v’ho fatto veder il falso leggiermente, or con tante ragioni non posso farvi creder il vero?
Don Ignazio. E però non vi credo nulla, perché solete dirmi le bugie e conosco i vostri artifici.
Panimbolo. (Oh come mal si conoscono i cuori!).
Don Flaminio. Ma se vogliamo adeguar il fatto, bisogna che ambodoi abbiamo pazienza, voi di ascoltare, io di parlare.
Don Ignazio. Dite suso.
Don Flaminio. Son piú di quattro mesi che me la godo a bell’aggio, né io son stato il primo o secondo; e vi fo sapere che non è tanto bella quanto voi la fate, ché, toltone quel poco di visuccio inbellettato e dipinto, sotto i panni è la piú sgarbata e lorda creatura che si veda.
Don Ignazio. Non basto a crederlo.
Don Flaminio. Né la sorella è men disonesta di lei; e un certo capitano ciarlone, che suol pratticar in casa, se la tiene