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atto terzo | 255 |
Chiaretta. La che?
Leccardo. La... , mi vergogno di dire.
Chiaretta. Se ti vergogni dirmelo di giorno e in piazza, dimmelo all’oscuro in casa.
Leccardo. Vorrei che mi prestassi la gonna di Carizia.
Chiaretta. Il malan che Dio ti dia! non vòi altro di questo?
Leccardo. E che pensavi? qualche cosa trista?
Chiaretta. Che vuoi farne?
Leccardo. Vestirla a te. E alcuna di quelle cose che l’ha mandato don Ignazio, o di quelle che portò quel giorno della festa; ché s’ella si vuole sposar dimani, noi ci sposaremo questa notte. Tu sarai Carizia, io don Ignazio.
Chiaretta. Tu mi burli.
Leccardo. Se ti burlo, facci Dio che mai gusti vino che mi piaccia!
Chiaretta. A questo giuramento ti credo. A che ora?
Leccardo. Alle due, in questa casetta terrena.
Chiaretta. Perché non in casa nostra?
Leccardo. Ché facendo romore non siamo sconci: ne parlaremo piú a lungo in casa.
Chiaretta. Bene.
Leccardo. Non mancarmi della tua promessa.
Chiaretta. Né tu della tua.
SCENA V
Don Flaminio, Leccardo, Panimbolo.
Don Flaminio. Ecco il veggiamo a punto. Leccardo, hai appontato con la fantesca?
Leccardo. No.
Don Flaminio. Perché?
Leccardo. L’aco era spuntato e avea la testa rotta.
Don Flaminio. Hai scherzato a bastanza: non piú scherzi.
Leccardo. Non abbiamo fatto cosa veruna.