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254 gli duoi fratelli rivali


Chiaretta. Starò dunque mal appresso te, che non mi mangi. Ma arei caro darti martello.

Leccardo. Sei piú atta a riceverlo che a darlo. — Oh come par bella Carizia or che pompeggia fra quelle vesti.

Chiaretta. Altro che tovaglia bianca ci vuol a tavola, altro che vesti ci vuole a far bella una donna: gli innamorati non amano le vesti ma quello che sta sotto le vesti. Bisogna aver buone carni, sode, grasse e lisce, come abbiamo noi fantesche che sempre fatichiamo; le gentildonne, che sempre stanno a spasso, le hanno cosí flaccide e molli che paiono vessiche sgonfiate.

Leccardo. Mi piace quanto dici.

Chiaretta. E le lor facce son tanto imbellettate che paiono maschere; e portano tal volta sul volto una bottega intiera di biacche, di solimati, di litargiri, di verzini e altre porcherie. Oibò, se le vedessi la mattina quando s’alzano da letto, diresti altrimente. Ma noi misere e poverelle abbiamo carestia d’acqua per lavarci la faccia: triste noi se non ci aiutasse la natura!

Leccardo. Veramente come una donna si parte da un buon naturale e il piglia artificiale, non può parer bella. Ma tu m’hai fatto risentir tutto: ti vorrei cercare un piacere.

Chiaretta. Che piacere?

Leccardo. Che mi presti una cosa.

Chiaretta. Che cosa?

Leccardo. Per un’ora, anzi mezza, anzi per un quarto; e te la ritorno come me la prestasti.

Chiaretta. Dimmi, che vorresti?

Leccardo. Vorrei... .

Chiaretta. Che vorresti?

Leccardo. Dubito non me la presterai.

Chiaretta. Ti presterò quanto ho per un’ora, per un quarto, per quanto tu vuoi: a me piú tosto manca l’occasione che la voluntá di far piacere; e se non basta in presto, te la dono.

Leccardo. So che sei d’una naturaccia larga e liberale, che ciò che ti è cercato in presto tu doni.

Chiaretta. Su, di’ presto, che vuoi?

Leccardo. Che mi presti la... .