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atto terzo | 253 |
SCENA IV.
Chiaretta fantesca, Leccardo.
Chiaretta. Ho tanta allegrezza che Carizia, la mia padrona, sia maritata che pare ch’ancora io sia a parte delle sue dolcezze.
Leccardo. Maggior dolcezza aresti, se gustassi quello che gustará ella quando staranno abbracciati insieme.
Chiaretta. E se fusse a quei piaceri, ne gusterei ancor io com’ella: che pensi che non sia di carne e d’ossa come lei? o le membra mie non siano fatte come le sue?
Leccardo. Ci è qua uomo che ti fará gustare le medesime dolcezze.
Chiaretta. Sei tu forsi quello?
Leccardo. Cosí Dio m’aiuti!
Chiaretta. Tengo per fermo che non ti aiuteria, ché tu hai piú a caro un bicchier di vino che quante donne son al mondo.
Leccardo. Dici il vero, ma tu sei tanto graziosa che faresti innamorar i sassi.
Chiaretta. S’io facessi innamorar i sassi, starei sicura che farei innamorar te che sei peggio d’un sasso.
Leccardo. Son risoluto esser tuo innamorato.
Chiaretta. Che ti ho ciera di vitella o di porca, che ti vòi innamorar di me?
Leccardo. T’apponesti. Hai certi labruzzi scarlatini come un prosciutto, una bocchina uscita in fuori com’un porchetto, gli occhi lucenti come una capra, le poppe grassette come una vitella, le groppe grosse e ritonde come un cappone impastato: in somma non hai cosa che non mi muova l’appetito; ebbe torto la natura non farti una capra.
Chiaretta. E tu che vòi esser mio marito, un becco.
Leccardo. E quando starò abbracciato con te, mi parrá di gustare il sapor di tutti quest’animali, o mia vacca, o mio porchetto, o mia agnella, o mia capra!