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atto terzo | 249 |
Leccardo. Maggior danno fo a me aiutandovi.
Don Flaminio. Leccardo, to’, prendi questi danari.
Leccardo. Ho steso la mano.
Don Flaminio. Togli questo argento.
Leccardo. L’argento mi comanda.
Don Flaminio. Togli quest’oro.
Leccardo. L’oro mi sforza. Oh come son belli e lampanti! par che buttino fuoco: fanno bel suono e bel vedere.
Don Flaminio. Sai che ho degli altri, che posso sodisfare alla tua ingordigia; e tu potrai taglieggiarmi a tuo modo.
Leccardo. Vorrei tornarteli, ma non posso distaccarmegli dalle mani.
Don Flaminio. Non sai quella pergola di presciutti, quei salsiccioni alla lombarda, quei formaggi e provature; non sai le compagnie di polli, gli esserciti di galline, quei squadroni di galli d’India, le cantine piene d’eccellentissimi vini che ho in casa? Ti chiuderò ivi dentro e non ti farò uscir se non arai divorato e digesto il tutto; sederai sempre a tavola mia con maestá cesarea e ti saranno posti innanzi piatti di maccheroni di polpe di capponi, d’un pasto l’uno, sempre bocconi da svogliati.
Leccardo. Panimbolo, che mi consigliaresti per non esser appiccato?
Panimbolo. Farti tagliar il collo prima.
Leccardo. Il malan che Dio ti dia!
Panimbolo. A te ho detto quanto bisogna far per non esser appiccato.
Leccardo. A tutti doi voi io lo posso insegnare.
Don Flaminio. Che dici eh, Leccardo mio?
Leccardo. Che volete che dica? tanti presenti, tante carezze, tante promesse farebbono pormi ad altro pericolo di questo; ma lassami retirar in consiglio secreto. — Leccardo, consiglia un poco te stesso: sei in un gran passo. Dall’una parte sta la fame e dall’altra la forca; e l’una e l’altra mi spaventano e mi minacciano. La fame uccide subbito, la forca ci vuol tempo a venire: la forca è una mala cosa, mi strangolará che non mangiarò piú mai; alla fame darò un perpetuo bando e mi