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248 | gli duoi fratelli rivali |
incappano e ci restano morte, i signori come voi sono gli uccelli grandi che la stracciano e portano via.
Don Flaminio. Io sarei il piú ingrato uomo del mondo se, tu incappando per amor mio, non spendessi quant’ho per liberarti.
Leccardo. De’ poveretti prima si fa giustizia, poi si forma il processo e si dá la sentenza.
Don Flaminio. Non temer quello che non sará per avvenir mai.
Leccardo. Anzi sempre vien quello che manco si teme.
Don Flaminio. Dái impedimento ad un gran disegno, ché non lo possiamo metter in atto e nel felice corso della vittoria si rompe: mi distruggi in erba e in spica le giá concette e mature speranze.
Leccardo. Voi volete che i buoni bocconi, che ho mangiato in casa vostra, mi costino come il cascio a’ topi quando incappano alla trappola.
Don Flaminio. Dunque non vòi aiutarmi?
Leccardo. Credo io ben di no.
Don Flaminio. Dunque non vòi?
Leccardo. Non voglio e non posso: pigliatevi quale volete di queste due.
Don Flaminio. Troppo disamorevole risposta.
Leccardo. Troppo sfacciata proposta.
Don Flaminio. Leccardo, sai che vorrei?
Leccardo. Che fussi appiccato!
Don Flaminio. Che quel c’hai a fare lo facessi tosto, ché il giorno va via e la sera se ne viene, e il beneficio consiste in questo momento di occasione. Usaró teco poche parole, ché la brevitá del tempo non me ne concede piú. Mi par soverchio ricordarti le cortesie che ti ho fatte; e il volerti far pregar con tanta instanza diminuisce l’obligo che mi tieni. Vorrei che mi facessi piacere pari alla cortesia, e questo servigio sarebbe il condimento di tutti gli altri.
Leccardo. L’impresa che mi proponi è di farmi essere appiccato.
Don Flaminio. Fai gran danno non aiutandomi.