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246 | gli duoi fratelli rivali |
Panimbolo. Quei, che col nome di «prudenza» cuoprono il natural timore, non fanno mai cosa buona. Quando mai facessimo altro, poneremo il tutto in disordine e confusione; e chi scampa un punto ne scampa cento.
Don Flaminio. Se ben è ardito ma pericoloso il consiglio e da spaventare ogni gran cuore, essendo disposto o di posseder Carizia o di morire, esseguiamolo: né vo’ per una ignobil paura mancar a me stesso.
Panimbolo. Sète risoluto?
Don Flaminio. Risolutissimo. Oh come con gli occhi del pensiero la veggio riuscir bella e netta! e mentre sto in questo pensiero, sento un secreto spirito nel cuore che mi conforta e spinge ad esseguirlo. Resta solo si parli al parasito se vuol aiutarci.
Panimbolo. Bisogna far presto, ché don Ignazio è d’ingegno destro e vigilante: se non si previene con prestezza, si torrá Carizia. «Chi non fa conto del tempo perde le fatiche e le speranze dell’effetto».
Don Flaminio. Or mi par ogni indugio una gran lunghezza di tempo: s’avesse le podagre, saria venuto.
Panimbolo. Se menasse cosí i piedi nel caminare come le mani ne’ piatti o le mascelle quando mangia, che l’alza in su e giú come un ballone, sarebbe venuto prima.
Don Flaminio. Eccolo, ma con una ciera annunziatrice di cattive novelle.
SCENA II.
Leccardo, don Flaminio, Panimbolo.
Leccardo. (O Dio, che disgusto darò a don Flaminio recandoli cosí cattive novelle!).
Don Flaminio. Leccardo, benvenuto!
Leccardo. Non son Leccardo né mai fui Leccardo, ché non mai mi toccò leccar a mio modo.
Don Flaminio. Sempre sul mangiare!