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atto terzo | 243 |
sta sopra, da te ricevo la sposa, la vita e l’onore insieme, ché perdendo lei perderò il tutto miseramente: renderai me stesso a me stesso e mi torrai dalle mani della morte. Se sei stato mio servidore, d’oggi innanzi sarai mio fratello; e dal guiderdone che riceverai da me, conoscerai che so conoscere e guiderdonare i servigi.
Panimbolo. Padron caro, allor sarò conosciuto e guiderdonato da voi quando conoscerete quanto i vostri servigi mi sieno a caro.
Don Flaminio. Il fatto è passato molto innanzi, le nozze son vicine, il tempo breve, i rimedi scarsi: temo dell’impossibile.
Panimbolo. Non può l’uomo oprar bene, il quale si avvilisce nell’impossibile. Quando non ci valerá ragione, bontá e giustizia, poneremo mano agl’inganni e furfanterie, ché queste vincono e superano tutte le cose; e poiché egli cerca con inganni tôrvi l’amata, sará bene che con i medesmi inganni gli respondiamo e facciamo cader l’inganno sopra l’ingannatore. E che val l’uomo che non sa far bene e male? ben a’ buoni e mal a’ cattivi? Or mentre ho lingua e ingegno state sicuro.
Don Flaminio. Comincio a respirare.
Panimbolo. Ma mentre parlo rivocate voi stesso in voi stesso.
Don Flaminio. O dolor o rabbia che tu sei, fa’ tanta tregua con me fin che ordisca qualche garbuglio, e poi tormentami e uccidimi come a te piace. — Ma dimmi, hai pensato alcuna cosa?
Panimbolo. Cose belle a dire e grate all’orecchie ma non riuscibili; e nelle riuscibili non vorrei valermi di mezi cosí pericolosi.
Don Flaminio. Mai si vinse periglio senza periglio. Ma perché corremo per perduti e per me è morta ogni speranza e non spero se non nella disperazione, prima che muoia vo’ tentar ogni cosa per difficile e perigliosa che sia, e morendo io vo’ che tutto il mondo perisca meco. Ma tu imagina qualche cosa: fa’ che veggia i fiori della mia felicitade.
Panimbolo. Farò come il fico che prima ti dará i frutti che ti mostri i fiori.