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216 | gli duoi fratelli rivali |
Leccardo. Cosí privasti il mondo di quella montagna. Ma quella che ci è adesso, che montagna è?
Martebellonio. Oh, sei fastidioso! ascolta se vòi, se non, va’ e t’appicca.
Leccardo. Ascolterò.
Martebellonio. ... Ella dicea aver vinto il gioco, perché era imboccato il ballonetto: la presi per la gola con duo diti e l’uccisi come una quaglia, talché non è piú viva ed io son rimasto nel suo ufficio. — Ma scostati da me, ch’or che mi sento imbizzarrito, che non ti strozzi.
Leccardo. Oimè, che occhi stralucenti!
Martebellonio. Guardati che qualche fulmine non m’esca dagli occhi e ti brusci vivo.
Leccardo. Tutta l’istoria è andata bene; ma ve sète smenticato che non fu ballonetto ma ballon grande, e tanto grande che non si basta a ingiottire. Ma io ti vo’ narrar una battaglia ch’ebbi con la Fame.
Martebellonio. Che battaglie, miserello?
Leccardo. La Fame era una persona viva, macra, sottile, ch’appena avea l’ossa e la pelle; e soleva andar in compagnia con la Carestia, con la Peste e con la Guerra, ché n’uccideva piú ella che non le spade. Ci disfidammo insieme: lo steccato fu un lago di brodo grasso dove notavano caponi, polli, porchette, vitelle e buoi intieri intieri; qui ci tuffammo a combattere con i denti. Prima ch’ella si mangiasse un vitello, io ne tracannai duo buoi e tutte le restanti robbe; e perché ancora m’avanzava appetito e non avea che mangiare, mi mangiai lei: cosí non fu piú la Fame al mondo, ed io sono suo luogotenente e ho due fami in corpo, la sua e la mia. Ma prima andiamo a mangiare; se non, che mi mangiarò te intiero intiero: Dio ti scampi dalla mia bocca!
Martebellonio. Tu sei un gran bugiardo!
Leccardo. Voi sète maggior di me: son un vostro minimo!
Martebellonio. Dimmi un poco, quanto tempo è che Calidora non t’ha parlato di me?
Leccardo. Ogni ora che mi vede; e quando passegiate cosí altiero dinanzi le sue fenestre, spasima per il fatto vostro.