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212 | gli duoi fratelli rivali |
ben stufati, poi spargervi sopra cannella pista, e sará un eccellente rimedio. All’ultimo, un poco di caso marzollino per un sigillastomaco.
Leccardo. Veramente da te si devriano tôrre le regole della medicina. Andamo a medicar presto, ché m’è salito addosso un appetito ferrigno, e tanta saliva mi scorre per la bocca che n’ho ingiottito piú de una carrafa. La medicina n’ha reinfrescato il dolor delle piaghe e m’ha mosso una febre alla gola che mi sento mancar l’anima.
Panimbolo. Con certe animelle di vitellucce ti riporrò l’anima in corpo.
Leccardo. Se fussi morto e sepellito resuscitarci per farmi medicar da voi. Don Flaminio, avessi qualche poco di salame o di cascio parmigiano in saccoccia?
Don Flaminio. Orbo, questa puzza vorrei portar adesso io?
Leccardo. Ma che muschio, che ambra, che aromati preziosi odorano piú di questi?
Don Flaminio. Leccardo mio, come io so medicar i tuoi dolori, cosí vorrei che medicassi i miei!
Leccardo. Non dubitar, che quando toglio una impresa, piú tosto muoio che la lascio.
Don Flaminio. Vieni a mangiar meco questa mattina.
Leccardo. Non posso: ho promesso ad altri.
Don Flaminio. Eh, vieni.
Leccardo. Eh, no.
Panimbolo. (Mira il furfante! se ne muore e se ne vuol far pregare).
Don Flaminio. Fa’ ora a mio modo, ch’una volta io farò a tuo modo.
Leccardo. Son stato invitato da certi amici ad un buon desinare, ma vo’ ingannargli per amor vostro.
Don Flaminio. Va’ a casa e ordina al cuoco che t’apparecchi tutto quello che saprai dimandare, e fa’ collazione; tratanto che sia apparecchiato, serò teco, ché vo per un negozio.
Leccardo. Ed io ne farò un altro e sarò a voi subbito. (Vedo il capitan Martebellonio. Non ho visto di lui il maggior bugiardo: