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atto primo | 211 |
Leccardo. ... A pena finii le parole, che vidi sfavillar gli occhi come un toro stuzzicato, e la faccia divenir rossa come un gambaro. Tosto mi die’ un sorgozzone che mi troncò la parola in gola; e dato di mano ad un bastone che si trovò vicino, lo lasciava cadere dove il caso il portava, non mirando piú alla testa che alla faccia o al collo. Cadei in terra; mi die’ colpi allo stomaco e calci che se fusse stato un ballone me aria fatto balzar per l’aria, ingiuriandomi «roffiano» e che lo volea dir ad Eufranone suo padre.
Don Flaminio. Non spaventarti per questo, ché le donne al principio sempre si mostrano cosí ritrose: si ammorbiderá ben sí. Ma abbi pazienza, Leccardo mio, ché de’ colpi delle sue mani non ne morrai.
Leccardo. Le tue belle parole non m’entrano in capo e mi levano il dolore e la fame.
Don Flaminio. Faremo che Panimbolo ti medichi e ti guarisca.
Panimbolo. Io ho recette esperimentate per le tue infirmitá.
Leccardo. Dimmele, per amor de Dio!
Panimbolo. Al gorguzale ci faremo una lavanda di lacrima e di vin greco molte volte il giorno.
Leccardo. Oh, bene! ho per fermo che tu debbi essere figlio di qualche medico. E se non guarisce alla prima?
Panimbolo. Reiterar la ricetta.
Leccardo. Almeno per una settimana! Che faremo per li denti?
Panimbolo. Uno sciacquadenti di vernaccia di Paula o di vin d’amarene.
Leccardo. Tu ti potresti addottorare. Ma per far maggior operazione bisognarebbe che i liquori fusser vecchi.
Panimbolo. N’avemo tanto vecchi in casa c’hanno la barba bianca.
Leccardo. E per lo stomaco poi?
Panimbolo. Bisogna tôr quattro pollastroni e fargli buglir ben bene, e poi colar quel brodo grasso in un piatto e porvi dentro a macerar fette de pan bianco, e accioché non esalino quei vapori dove sta tutta la virtú, bisogna coprir che venghino