Pagina:Della Porta - Le commedie II.djvu/222

210 gli duoi fratelli rivali


Leccardo. ... Però non è meraviglia se mi sento cosí leggiero: non mangio cose di sostanza. ...

Don Flaminio. (Lo vo’ chiamare).

Panimbolo. (Non l’interrompete, di grazia: dice assai bene, loda la largitá del suo padrone).

Don Flaminio. Volgiti qua, Leccardo.

Leccardo. O signor don Flaminio, a punto stava col pensiero a voi!

Don Flaminio. Parla, ché la tua bocca mi può dar morte e vita.

Leccardo. Che! son serpente io che con la bocca do morte e vita? La mia bocca non dá morte se non a polli, caponi e porchette.

Panimbolo. E li dái morte e sepoltura ad un tempo.

Don Flaminio. Lasciamo i scherzi: ragionamo di Carizia, ché non ho maggior dolcezza in questa vita.

Leccardo. Ed io quando ragiono di mangiare e di bere.

Don Flaminio. Narrami alcuna cosa: racconsolami tutto.

Leccardo. Ti sconsolerò piú tosto.

Don Flaminio. Potrai dirmi altro che non mi ama? lo so meglio di te. L’incendio è passato tanto oltre che mi pasco del suo disamare: di’ liberamente.

Leccardo. Vedi questi segni e le lividure?

Don Flaminio. Tu stai malconcio: chi fu quel crudelaccio?

Leccardo. La tua Carizia me l’ha fatte.

Don Flaminio. Mia? perché dici «mia», se non vuoi dir nemica»? — Ma pur com’è passato il fatto?

Leccardo. Oggi, perché stava un poco allegretta, lodava la sua bellezza; ella ridea. Io, vedendo che sopportava le lodi, prendo animo e passo innanzi: — Tu ridi e gli assassinati dalla tua bellezza piangono e si dolgono, ché quel giorno che fu festa de’ tori innamorasti tutto il mondo! — Ella piú rideva ed io passo piú innanzi: — E fra gli altri ci è un certo che sta alla morte per amor tuo! ...

Don Flaminio. Tu te ne passi troppo leggiermente: raccontamelo piú minutamente.