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208 | gli duoi fratelli rivali |
Panimbolo. Il parasite Leccarde? state fresco, ché delle ventiquattro ore del giorno ne sta imbriaco o ne dorme piú di trenta. Vostro fratello tanto può star senza far l’amore quanto il cielo senza stelle o il mar senza tempesta.
Don Flaminio. Egli sta invaghito e morto della figlia del conte de Tricarico — ed io sono mezano del matrimonio e mi ci affatico molto per tôrmi da questo sospetto, — e m’ha dato parola che, volendo dargli quarantamila docati, sposaralla; ma egli non voi darne piú che trentamila.
Panimbolo. Come può starne invaghito e morto s’ella è brutta come una simia? né credo che la terrebbe per centomila; ed essendo egli di feroce e magnanimo spirito, poco si curarebbe di diecimila ducati, ché se li gioca in mez’ora. Ma dubbito che essendo gran tempo esercitato negli artifici della simulazione, che tutto ciò non dica per ingannarvi; e vi mostrarei per chiarissime congetture ch’egli aspiri a posseder Carizia.
Don Flaminio. Non piaccia a Dio che ciò sia! ché se per altre cortigianucce di nulla ci siamo azzuffati insieme, pensa tu che farebbomo per costoro; e questa ingiuria io la sopporterei piú volentieri da ogni uomo che da mio fratello.
Panimbolo. Egli da quel giorno della festa è divenuto un altro. Parla talvolta, sta malinconico, mai ride, mangiando si smentica di mangiare, dove prima mangiava per doi suoi pari, la notte poco dorme, sta volentieri solo, e standovi sospira, s’affligge e si crucia tutto.
Don Flaminio. Io ho osservato in lui tutto il contrario.
Panimbolo. Perché si guarda da voi solo; né mai lo veggio ridere o star allegro se non quando è con voi. Di piú, non è mai giorno che non passi mille volte per questa strada dinanzi alla sua casa.
Don Flaminio. Io non ve l’ho incontrato giamai.
Panimbolo. Deve tener le spie per non esservi còlto da voi; e quella arte, che voi usate con lui, egli usa con voi. Ma io vi giuro che quante volte m’è accaduto passarvi, sempre ve l’ho incontrato.