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atto primo | 207 |
d’incorruttibil onestá di queste, e che invano spera uomo comprarse la loro pudicizia? né voi in tanto tempo che la servite ne avete avuto un buon viso.
Don Flaminio. Tutto questo so bene. Ma che vòi che faccia? non posso voler altro, perché cosí vuole chi può piú del mio potere.
Panimbolo. Chetatevi e abbiate pazienza.
Don Flaminio. La pacienza è cibo o de santi o d’animi vili.
Panimbolo. E voi amate senza goder al presente ciò né sperar al futuro.
Don Flaminio. Almeno, se non ama me, non ama don Ignazio, e non la possedendo io non la possiede egli. Quella sua onestá quanto piú m’affligge piú m’innamora: io non posso odiar il suo odio, godo del suo disamore. Ché s’alle pene ch’io patisco s’aggiungesse il sospetto di don Ignazio, sarebbono per me troppo aspre e insopportabili.
Panimbolo. Io dubbito che don Ignazio avendo tentata la via ch’or voi tentate ed essendoli riuscita vana, ch’or ne tenti una piú riuscibile.
Don Flaminio. Don Ignazio non vi pensa né la vidde.
Panimbolo. Son speranze con che ingannate voi stesso.
Don Flaminio. Facil cosa è ingannar un altro, ma ingannar se stesso è molto difficile. Io in quel giorno, perché non avea altro sospetto che di lui, puosi effetto ad ogni suo gesto e conobbi veramente che non s’accorse di lei: perché dove girava gli occhi, li girava io; dove mirava, mirava io; non diceva parola che non la volesse ascoltare; e accioché non s’accorgesse di lei, il tolsi dalla sala e il condussi allo steccato; e finito il gioco venne meco a casa, cenammo e ce n’andammo a letto e raggionammo d’ogni altra cosa che vedemmo quel giorno, eccetto che di quelle giovani. Ché s’egli si fusse accorto di sí inusitata bellezza, non l’arebbe tratto tutto il mondo da quello steccato, da quella sala, dalle sue faldi; e quando t’imposi che ti fussi informato chi fusse, usai la maggior diligenza del mondo ché non se ne fusse accorto. Io non sono cosí goffo come pensi. E se Leccardo, che abita in casa sua, n’avesse inteso altra cosa, non me l’arebbe referito?