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atto secondo | 141 |
Capitano. Or se tu vuoi far questione, non ne vo’ far io.
Dulone. Padrone, datemi licenza ch’io facci questione con lui.
Capitano. Un tuo pari tôrsela meco, ah? Che stimi tu ch’io fugga le questioni? corro io piú volentieri alle coltellate che un tedesco invitato al bere; né si allegra cosí il chirurgo delle ferite come io di farle: e io do di vivere a tutti, ché se non fusse per me si morirebbono di fame. Turberei la face di Ottavian per far questione. Ma la tua indegnitá ti salva per questa volta, e ti si perdona la vita: però ingenocchiati e cercami perdono.
Dulone. Io ingenocchiarmi a te?
Capitano. Fa’ quello che dico, non ti far guastare: non sai tu che, se pongo mano alla spada, ti spolpo, disosso, scarnifico e smidollo? La maggior cortesia che possa farti è darti una boffettina dietro la testa e farti balzar gli occhi fuor della testa piú di un miglio e farti restar figura contrafatta, e con un dito farti piú busi nel corpo che non ha un crivello da crivellar meloni!
Erasto. Capitano, ti son gito cercando molte volte per far teco questioni per conto di Amasia, e or vogliamo azzuffarci.
Capitano. Io ti vo’ far conoscere che veramente sono innamorato di Amasia, ché l’odor che spira da questa casa dove abita mi ferisce nell’anima e mi fa un essempio di pazienza: mi farei dar bastonate per amor suo. Vo’ temprar la fierezza del mio guardo, ché non ti ferisca mirando, e vo’ parlar teco cortesemente.
Erasto. Dico che la tua è una soverchia importunitá, ché non passo mai di qua se non ti veggia in questa strada passeggiare; però cava fuor la spada.
Capitano. Non è mia usanza por mano alla spada, se almeno con un colpo non ho speranza di squartar cento uomini, sbarattar un essercito, cacciarmi dinanzi dieci bandiere; e avendola in mano nuda, ammazzo cosí gli amici come gli nemici.
Erasto. Se non poni mano alla spada, te la darò in testa con tutto il fodero.
Capitano. Ahi, fortuna traditora, perché non ho meco la «gastigamatti» o lo spadone a due mani? ché lo farei pentir del tanto