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140 la cintia

l’ho vista come veggio voi. Se Amasia non gioca di bagattelle o non è qualche fantasima, non so come possa star in duo luoghi in uno istesso tempo.

Erasto. Chi era seco nella strada?

Dulone. Ben dimandate quella venerabil bestia del capitano, che stava passeggiando dinanzi a lei e suo padre, e con tanta sproporzionata bravura che ha mosso a rider l’uno e l’altra piú di tre volte.

Erasto. E il capitano stava mirando?

Dulone. Sí che il suo suspirare s’udiva un miglio. — Ma eccolo che viene; non potea venir a tempo piú opportuno.

SCENA IX.

Capitano, Erasto, Dulone.

Capitano. Ecco che la tua mala sorte pur me ti ha menato dinanzi!

Erasto. (Anzi, la tua dinanzi a me!).

Capitano. E stimo che nel vedermi calará la barretta su gli occhi, e allo sventolar del pennacchio tu debba conoscere che il cervello mi frulla sotto.

Erasto. (Mira che volto acerbo, che fronte crespa, che trasvoltar d’occhi! par che mi voglia inghiottire alla vista). Che vòi tu da me che mi stai cosí mirando?

Capitano. E tu perché stai mirando me?

Erasto. Che mi curo io di mirar un tuo pari?

Capitano. Come sai tu dunque ch’io miro te, se tu non miri me?

Erasto. Su, che vo’ far questione teco.

Capitano. Tu vòi far questione meco?

Erasto. Sí.

Capitano. E sei deliberato cosí?

Erasto. Deliberatissimo.

Capitano. E senza altro vòi far questione meco?

Erasto. Senz’altro.