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atto secondo | 129 |
Capitano. E chi son costoro? Fusse mai quel cattivello, quel disgraziato di Erasto, quel civettone che non fa altro tutto il giorno che civettarci intorno alle finestre? e va infamando per tutto che t’ha impregnata tua figlia?
Pedofilo. Perché non può essere quel che dice, non me ne curo.
Capitano. Una bastonatina che gli darò, lo farò star un anno ammalato in letto, che non ci dará fastidio. Ma tu sei uno di quei che piglia il peggio. Aimè, e cerchi altri? Ascolta: Amor regge suo imperio senza spada; non darmi tu occasione che l’abbi ad adoprare!
Pedofilo. Vi lascio, ché ho da fare.
Capitano. Lascio io te, ché ho da far piú di te.
SCENA IV.
Cintia, Erasto.
Cintia. (O quanto è misera e infelice la mia vita, posciach’io, io, oimè!, io con le mie orecchie ho inteso da Erasto la crudel sentenza della mia morte; ché, sperando ch’egli avesse compassione dell’amor mio come imagine del suo, dimostrò il volto avampato del foco dell’ira che l’ardeva nel petto, e negli occhi suoi come in un specchio si vedevano scolpiti il veleno e il furore, e le parole che venivan fuori eran piene della perfidia del suo mal animo. Onde io, percossa da quelle parole come da un folgore, fui morta prima che morisse, siché ancora ho l’orecchie piene dell’ingiurie dettemi. Or che farò quando s’accorgerá che quello, che ho celato sotto l’altrui persona, sia accaduto nella sua propria? Ahi, che la sentenza della mia morte nella sua bocca mi parea dolce e suave! Oh contro me implacabil contumacia di fortuna! se taccio fo male, se parlo fo peggio, se non parlo io parlerá il ventre per me. Che speranza posso aver io di salute, se l’infirmitá ch’io pato sono fra sè contrarie e discordanti, e quel che giova all’uno nuoce all’altro? Ecco i giochi della mia infelicitá! oh che sogetto di poco onorata