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atto secondo | 125 |
Dulone. Quanto piú cercherete peggio troverete: ché quel Cintio, che voi stimate cosí buon amico, è...; basta.
Erasto. Che vuol dire quel «basta»? che dici balbottando? che ti riservi fra la lingua?
Dulone. M’ha ciera di un traforello, di un traditorello.
Erasto. Ma che piú bella ciera si potrebbe veder di quella sua? come sotto quel color di latte e rose può covar tradimento? come è possibile che quel che dentro si covasse non apparisse di fuori?
Dulone. Io non so perché tanta affezione.
Erasto. Mi ama, mi onora, mi serve con ogni affetto e ne ricevo continui benefici, che è la maggior catena che attacchi la benevolenza.
Dulone. V’ama e vi serve con amor simulato e con nemicizia coperta, con desegni.
Erasto. Che utile ne può sperar egli da me?
Dulone. Che so io?
Erasto. Parla, col tuo malanno!
Dulone. Dubbito non ve la facci doppia.
Erasto. Come doppia?
Dulone. Che mentre egli vi trattiene in casa sua con qualche puttana vecchia in letto sotto nome di Amasia, si giaccia con Lidia vostra sorella.
Erasto. Perché tu non avesti mai né bontá né fede, col paragon del tuo animo fai giudicio degli altri e pensi sia qualche traditore.
Dulone. Io non lo penso ma lo credo.
Erasto. A che te ne sei avvisto?
Dulone. Quando egli viene a casa a trovarvi, Lidia a scavezzacollo corre agli usci, alle fenestre per vederlo; si tramuta di cento colori; e se la onestá di donzella non gliel vietasse, correrebbe in mezo la strada per vederlo.
Erasto. Di questo me ne sono avveduto anch’io, lo confessa ella e l’ha fatto chiedere al padre per suo sposo; ma egli risponde che non vuol ammogliarsi. Se l’amasse come tu dici, l’accettarebbe per isposo.