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atto secondo | 123 |
Né so come non vi morde la conscienza, che val piú di mille testimoni e accusatori.
Cintia. Che ho fatto altro di male che rubbar le dolcezze altrui?
Erasto. Ma che dolcezze eran le vostre di goder quel corpo di cui l’animo non concorreva col piacere con voi? godevate un cadavere.
Cintia. Vuol la ragione che chi è amato ami, se non vuol essere ingannato.
Erasto. Nello amore non bisogna assegnar ragioni, perché è libero.
Cintia. Voi dunque perché ne assegnate tante contro di me? Avete il torto a star cosí sul rigor del primo decreto: m’avete cosí inacerbite le piaghe dell’anima che me ne sento morire.
Erasto. Seguite. Par che non abbiate parola: che mutazione è questa? voi mi parete mezo morto!
Cintia. Sento un svenimento d’animo che mi pone in forse tra il vivere e il morire.
Erasto. O Dio, che cosa è questa? Cintio mio, rivenite!
Cintia. Ho fretta di partirmi; adio.
Erasto. Non vorrei che costui patisse alcun male, per quanto mi val la vita, perché è il piú gentil, cortese e leal amico che mai nascesse, e mi ama svisceratamente. Volea ragionargli un poco de’ fatti miei, ed è partito subito. Ma non so perché tardi tanto Dulone, il mio servo, ché ho mandato in dono una collana ad Amasia. Ma lo veggio venire. — Dulone, dimmi, son morto o vivo? perché mi porti la morte o la vita nella tua lingua.
SCENA II.
Dulone servo, Erasto.
Dulone. Morto, arcimorto, piú di lá de’ morti, ascoltate.
Erasto. Come vuoi che ascolti se dici che son morto? i morti non ascoltano.